sabato 27 marzo 2010
martedì 5 gennaio 2010
La Befana non porta carbon tax
Nicolas Sarkozy non intende arrendersi. La Corte costituzionale francese ha bocciato ieri il disegno di legge voluto dall’Eliseo per introdurre nel paese a partire dal primo gennaio la carbon tax, un’imposta su tutti i consumi energetici che producono emissioni di anidride carbonica. Il presidente in questi giorni è in vacanza in Marocco, ma il segretario di Stato all’Ambiente Chantal Jouanno ha chiarito che Sarkozy è “determinato” a imporre la carbon tax, che rappresenta “uno dei suoi impegni” più importanti. “Rispetterà sicuramente il suo impegno, per lui l’ambiente è una priorità, anche se è difficile e anche se siamo a tre mesi da una scadenza elettorale”, ha sottolineato la Jouanno ricordando che il governo presenterà un nuovo progetto in tal senso il 20 gennaio. Nella sentenza si spiega che la carbon tax “rappresenta una violazione del principio di uguaglianza”, proprio come sostenevano i partiti di opposizione, socialisti in testa, che si erano rivolti alla Corte.
La nuova imposta prevedeva un esborso di 17 euro per ogni tonnellata di CO2 emessa, incidendo sui prezzi dei carburanti per 4 centesimi di euro al litro per la benzina e per 4,5 per il gasolio. Contrari al provvedimento erano anche i Verdi, secondo i quali i giudici hanno confermato che la “carbon tax versione Sarkozy” era “fumo negli occhi”. Il dispositivo del ‘Conseil constitutionnel’ spiega infatti che la norma permette “troppe esenzioni” in contrasto con l’obiettivo dichiarato di contribuire alla lotta contro i cambiamenti climatici.
La Corte aggiunge inoltre che la carbon tax avrebbe lasciato fuori alcuni dei maggiori inquinatori, come le raffinerie, e che “il 93 per cento delle emissioni di Co2 di origine industriale” sarebbero state in pratica non soggette al prelievo.
Bici da invasione
Negli ultimi tempi si parla molto di bike sharing, anche se la rivoluzione della bicicletta condivisa è più annunciata che praticata. Ma è poi veramente questa la mossa giusta? L’esperimento è stato tentato più volte e finora non è mai decollato. Una proposta alternativa è stata lanciata da Pedro Kanof, esperto di informatica e consulente della Banca Mondiale, che invita a fare un salto passando dall’uso omeopatica delle bici a un’invasione di massa dei centri in modo da imporre con la presenza fisica delle due ruote un ritmo diverso alla circolazione. Kanov, che ha anche brevettato sistemi anti furto e anti pioggia per estendere l’uso delle due ruote, fa un calcolo molto semplice. Si è parlato molto dell’esperimento di Parigi che ha messo in pista 20 mila bici condivise, ma in molti paesi industrializzati la quantità di bici esistente è una per ogni tre abitanti e in Italia ancora di più: ci sono 30 milioni di biciclette. Il problema non è farne spuntare fuori altre ma permettere a quelli esistenti di venire utilizzate creando spazi di circolazione e parcheggi più sicuri. E’ una buona base di discussione.
cianciullo.blogautore.repubblica.it/
Quanto ci costa un mondo pulito diminuire le emissioni è low cost
Il numero, nell'intesa uscita da Copenaghen, non c'è, ma prima o poi, mettersi al lavoro per dimezzare, entro il 2050, le emissioni di anidride carbonica, rispetto al 1990, sarà inevitabile, se non si vuole che l'impatto dell'effetto serra (siccità, inondazioni, secondo gli scienziati) ci travolga, aumentando la temperatura media del pianeta di più di 2 gradi. È un taglio da guardare con timore, una medicina necessaria, ma amarissima? I passi da compiere li conosciamo: abbattere i consumi di combustibili fossili, come petrolio, carbone, gas, espandere massicciamente le centrali ad energia pulita (sole, vento, nucleare). Si tratta di investimenti enormi. In più, tutte le industrie che emettono CO2 dovranno pagare per i diritti alle emissioni e scaricheranno i maggiori costi sui prezzi.
Una valanga che travolgerà il nostro stile di vita, costringendoci a rinunce e penitenze? La risposta è no. Dimezzare le emissioni non significa che saremo costretti ad andare in giro in sandali e lana grezza. Al contrario, gli effetti sulla vita quotidiana sono straordinariamente limitati.
I modelli econometrici hanno un valore di predizione necessariamente limitato, tanto più quando si tratta di prevedere il comportamento dei prezzi, da qui a quarant'anni. Se prestiamo fede ai più recenti esercizi degli economisti, tuttavia, meno emissioni non significano disastro in vista. Secondo uno studio della scorsa estate della Northwestern University, tagliare le emissioni del 50 per cento comporterebbe, negli Stati Uniti, un aumento generale del prezzi al consumo non superiore, in media, al 5 per cento. È vero, però, che, per arrivare ad un taglio globale del 50 per cento delle emissioni, i paesi industrializzati dovrebbero ridurre le loro (come ha già annunciato di voler fare Obama), dell'80 per cento. Ma anche questo taglio non avrebbe effetti drammatici, secondo il Pew Center on Global Climate Change: "Anche tagliare le emissioni dell'80 per cento nell'arco di quattro decenni avrebbe, nella gran parte dei casi, un effetto molto limitato sui consumatori".
Lo stesso vale per l'Europa. La rivista New Scientist ha commissionato a Cambridge Econometrics - una società di consulenza che fornisce regolarmente, sul cambiamento climatico, modelli econometrici al governo britannico, ma a scadenza più ravvicinata - una previsione dell'impatto sui prezzi, per i consumatori inglesi, di un taglio delle emissioni, al 2050, dell'80 per cento, rispetto al 1990. I ricercatori ci sono arrivati, prendendo come riferimento l'esperienza storica. Cioè quanto, in passato, i mutamenti del costo dell'energia hanno influenzato i prezzi di 40 diversi prodotti di consumo. Risultato? L'impatto, sui prezzi di gran parte dei prodotti di consumo è modesto: l'1-2 per cento. Il prezzo del cibo aumenterebbe, in media, dell'1 per cento, come quello dei vestiti e delle automobili. Una pinta di birra costerebbe il 2 per cento in più, un pc portatile da 1.000 euro ne costerebbe 1.020. Anche una lavatrice o un frigorifero costerebbero solo il 2 per cento in più.
Questo avviene perché l'energia necessaria a produrre questi beni rappresenta, appunto, l'1-2 per cento del prezzo finale. I beni e i prodotti in cui l'energia pesa di più subirebbero una spinta assai più forte, ma sono relativamente pochi. La bolletta dell'elettricità, ad esempio, rincarerebbe del 15 per cento. E ancora di più i viaggi aerei, dove l'energia rappresenta oltre il 7 per cento del prezzo finale. Dato che le compagnie aeree, al momento, non hanno un'alternativa a basso contenuto di anidride carbonica come combustibile, pagarsi i diritti alle emissioni sarebbe un costo pesante. Cambridge Econometrics prevede un aumento del 140 per cento del prezzo dei biglietti aerei.
In effetti, i calcoli del modello presuppongono due ipotesi. La prima è che il governo fornisca incentivi ai cittadini perché, invece del gas, usino l'elettricità per la cucina e, soprattutto, il riscaldamento. La seconda è che il governo stesso investa massicciamente nelle infrastrutture necessarie per le auto elettriche. Da qui a 40 anni, non sono, però, ipotesi remote. E, comunque, dice un altro studio, realizzato da un gigante mondiale della consulenza, come McKinsey, hanno un peso relativo: "Quattro quinti delle riduzioni nelle emissioni - sostengono gli analisti della McKinsey - possono essere realizzati sfruttando tecnologie che già oggi esistono su scala commerciale". Basterebbe, dicono, un prezzo dei diritti alle emissioni di 50 dollari per tonnellata di CO2. "E il 40 per cento delle riduzioni - aggiungono - di fatto consentono di risparmiare soldi".
Ma allora, le previsioni catastrofiche, come quelle di un luminare di Yale, William Nordhaus, secondo il quale stabilizzare clima e temperature costerebbe, solo agli Usa, 20 mila miliardi di dollari? Si tratta di intendersi. Stephen Schneider, di Stanford, ha rifatto i conti di Nordhaus. I 20 mila miliardi di dollari, infatti, non sono il costo immediato, ma al 2100. Se si assume che, da qui ad allora, l'economia americana crescerà in media del 2 per cento l'anno, un ritmo abbastanza ordinario per il gigante Usa, il prezzo da pagare per salvare il pianeta non sembra un granché: "Vuol dire solo - secondo Schneider - che gli americani dovranno aspettare il 2101 per essere ricchi, quanto, senza toccare le emissioni, sarebbero stati nel 2100".
Una valanga che travolgerà il nostro stile di vita, costringendoci a rinunce e penitenze? La risposta è no. Dimezzare le emissioni non significa che saremo costretti ad andare in giro in sandali e lana grezza. Al contrario, gli effetti sulla vita quotidiana sono straordinariamente limitati.
I modelli econometrici hanno un valore di predizione necessariamente limitato, tanto più quando si tratta di prevedere il comportamento dei prezzi, da qui a quarant'anni. Se prestiamo fede ai più recenti esercizi degli economisti, tuttavia, meno emissioni non significano disastro in vista. Secondo uno studio della scorsa estate della Northwestern University, tagliare le emissioni del 50 per cento comporterebbe, negli Stati Uniti, un aumento generale del prezzi al consumo non superiore, in media, al 5 per cento. È vero, però, che, per arrivare ad un taglio globale del 50 per cento delle emissioni, i paesi industrializzati dovrebbero ridurre le loro (come ha già annunciato di voler fare Obama), dell'80 per cento. Ma anche questo taglio non avrebbe effetti drammatici, secondo il Pew Center on Global Climate Change: "Anche tagliare le emissioni dell'80 per cento nell'arco di quattro decenni avrebbe, nella gran parte dei casi, un effetto molto limitato sui consumatori".
Lo stesso vale per l'Europa. La rivista New Scientist ha commissionato a Cambridge Econometrics - una società di consulenza che fornisce regolarmente, sul cambiamento climatico, modelli econometrici al governo britannico, ma a scadenza più ravvicinata - una previsione dell'impatto sui prezzi, per i consumatori inglesi, di un taglio delle emissioni, al 2050, dell'80 per cento, rispetto al 1990. I ricercatori ci sono arrivati, prendendo come riferimento l'esperienza storica. Cioè quanto, in passato, i mutamenti del costo dell'energia hanno influenzato i prezzi di 40 diversi prodotti di consumo. Risultato? L'impatto, sui prezzi di gran parte dei prodotti di consumo è modesto: l'1-2 per cento. Il prezzo del cibo aumenterebbe, in media, dell'1 per cento, come quello dei vestiti e delle automobili. Una pinta di birra costerebbe il 2 per cento in più, un pc portatile da 1.000 euro ne costerebbe 1.020. Anche una lavatrice o un frigorifero costerebbero solo il 2 per cento in più.
Questo avviene perché l'energia necessaria a produrre questi beni rappresenta, appunto, l'1-2 per cento del prezzo finale. I beni e i prodotti in cui l'energia pesa di più subirebbero una spinta assai più forte, ma sono relativamente pochi. La bolletta dell'elettricità, ad esempio, rincarerebbe del 15 per cento. E ancora di più i viaggi aerei, dove l'energia rappresenta oltre il 7 per cento del prezzo finale. Dato che le compagnie aeree, al momento, non hanno un'alternativa a basso contenuto di anidride carbonica come combustibile, pagarsi i diritti alle emissioni sarebbe un costo pesante. Cambridge Econometrics prevede un aumento del 140 per cento del prezzo dei biglietti aerei.
In effetti, i calcoli del modello presuppongono due ipotesi. La prima è che il governo fornisca incentivi ai cittadini perché, invece del gas, usino l'elettricità per la cucina e, soprattutto, il riscaldamento. La seconda è che il governo stesso investa massicciamente nelle infrastrutture necessarie per le auto elettriche. Da qui a 40 anni, non sono, però, ipotesi remote. E, comunque, dice un altro studio, realizzato da un gigante mondiale della consulenza, come McKinsey, hanno un peso relativo: "Quattro quinti delle riduzioni nelle emissioni - sostengono gli analisti della McKinsey - possono essere realizzati sfruttando tecnologie che già oggi esistono su scala commerciale". Basterebbe, dicono, un prezzo dei diritti alle emissioni di 50 dollari per tonnellata di CO2. "E il 40 per cento delle riduzioni - aggiungono - di fatto consentono di risparmiare soldi".
Ma allora, le previsioni catastrofiche, come quelle di un luminare di Yale, William Nordhaus, secondo il quale stabilizzare clima e temperature costerebbe, solo agli Usa, 20 mila miliardi di dollari? Si tratta di intendersi. Stephen Schneider, di Stanford, ha rifatto i conti di Nordhaus. I 20 mila miliardi di dollari, infatti, non sono il costo immediato, ma al 2100. Se si assume che, da qui ad allora, l'economia americana crescerà in media del 2 per cento l'anno, un ritmo abbastanza ordinario per il gigante Usa, il prezzo da pagare per salvare il pianeta non sembra un granché: "Vuol dire solo - secondo Schneider - che gli americani dovranno aspettare il 2101 per essere ricchi, quanto, senza toccare le emissioni, sarebbero stati nel 2100".
lunedì 4 gennaio 2010
ECO-ENERGIA: SOSTEGNO ALLE BIOMASSE, NUOVE REGOLE
Un decreto da' attuazione ad alcune delle misure per l'incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. In particolare il provvedimento reca le disposizioni in materia di incentivazione dell'energia elettrica prodotta da impianti alimentati da biomasse solide, oggetto di rifacimento parziale, mentre viene rinviata a un successivo decreto la determinazione degli elementi per la valutazione dell'energia elettrica incentivata.
Oggetto delle misure di sostegno e la produzione di energia elettrica mediante impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili, entrati in esercizio in data successiva al 31 dicembre 2007, a seguito di nuova costruzione, rifacimento o potenziamento. In particolare viene regolata la materia relativa alla produzione di energia elettrica da biomassa, proprio poiche' presenta proprie specificita' rispetto alla produzione di elettricita' da altre fonti rinnovabili, soprattutto in ragione dei sui costi di approvvigionamento e del fatto che la fonte include una varieta' di prodotti estremamente diversificata. Il decreto quindi si preoccupa di salvaguardare prioritariamente la produzione di energia elettrica da biomassa solida, in particolare in impianti di potenza superiore a 1 MW, mediante misure economiche di sostegno a interventi di rifacimento ritenuti adeguatamente idonei, considerato che i costi di investimento, esercizio, manutenzione e approvvigionamento della biomassa dipendono dalla tipologia di biomassa, e risultano usualmente piu' elevati se solida. Tiene inoltre conto che in ragione del costo di approvvigionamento della biomassa solida, per gli impianti esistenti che cessano dal diritto alle tariffe di cui al provvedimento Cip 6/92, ovvero dal diritto ai certificati verdi, non sussisterebbero in assenza di appropriati interventi di sostegno, le condizioni per il mantenimento in esercizio degli impianti.
Etichette:
biomasse solide,
energetiche rinnovabili
FOTOVOLTAICO; GIU' PREZZI, BUONE PREVISIONI UE
I costi del fotovoltaico scenderanno in media dell'8% l'anno: la previsione e' dell'Epia, l' Associazione europea dell'industria fotovoltaica, che annuncia che il numero di impianti fotovoltaici in Italia e' quasi raddoppiato in meno di un anno, passando dai 31.800 impianti installati a fine 2008 agli oltre 53.600 rilevati dal Gestore servizi energetici. Complessivamente, nel nostro Paese la potenza degli impianti fotovoltaici installati e' pari a 668,6 megawatt.
Secondo lo studio, entro il 2020 con questa fonte energetica si potrebbe soddisfare addirittura il 12% della domanda di elettricita' dell'Unione europea, a confronto con la situazione attuale di poco inferiore all'1%. Il nostro Paese, se venisse confermata questa tendenza, sarebbe uno di quelli che potrebbe contribuire in misura maggiore al conseguimento degli obiettivi europei di lotta al cambiamento climatico. Ma, secondo l'Epia, si tratta di un traguardo realizzabile soltanto a patto che in Europa si verifichino due condizioni in particolare: una maggiore flessibilita' del sistema di generazione elettrica e sistemi di sostegno al mercato stabili e sostenibili.
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